Milano, 2016

Qualche tempo fa si è scritto molto riguardo ‘il pasticciaccio Steve McCurry‘: in breve, uno spettatore ha postato sul suo blog un articolo in cui dimostrava che una fotografia del Maestro, scattata a Cuba ed esposta a una mostra alla Venaria di Torino, diversi elementi risultavano alterati, compreso un passante col classico ‘palo dietro la testa’ spostato artificialmente ma -ahimè- con un visibile residuo facente capolino da dietro la caviglia, il che ha reso evidente un uso piuttosto ‘avanzato’ di Photoshop. A seguire: putiferio, indignazione generale, assistente di McCurry esecutore della modifica licenziato in tronco, con il ‘mandante’ che si scusa per l’errore ma non troppo.

Ovviamente tutta la faccenda porta, oltre alla divisione in fazioni pro e contro McCurry, a discutere di cosa sia lecito o meno modificare in una fotografia. Stranamente nessuno ha chiesto la mia opinione, ma visto che ho un blog posso fornirvela lo stesso: secondo me dipende dal genere fotografico di cui si parla.
Per esempio, se ti chiami David LaChapelle e sei un surrealista, puoi fare più o meno tutto quello che ti passa per la testa.

McCurry dal 1986 fa invece parte dell’Agenzia Magnum, la più conosciuta agenzia fotogiornalistica del mondo, pertanto io l’ho sempre considerato un fotogiornalista. Chi mi conosce già sa cosa penso di lui, ma non è importante. Di certo trovo le sue immagini formalmente ineccepibili: e quando vedo una fotografia formalmente ineccepibile mi immagino cosa deve essere stato per il fotografo essere stato lì in quel momento, testimone di tanta irripetibilità, lo stupore che deve aver provato, ammiro la prontezza con cui quel momento è stato comunque fermato e sono grato di poterlo ammirare.

Esiste un meraviglioso volume della Magnum, intitolato ‘Contact Sheets’, dove è possibile vedere tutti i provini delle sessioni che hanno portato alla realizzazione di diverse foto ‘storiche’.
Quindi notiamo come Cartier Bresson si spostava per allineare alla perfezione linee in primo piano con linee sullo sfondo creando cornici concentriche in cui inquadrare i soggetti, come Halsman sottopose Dalì, diversi gatti e uno stuolo di assistenti a sessioni di salti con secchiate d’acqua fino a ottenere il risultato perfetto, come Burri danzò con la fotocamera intorno al “Che” prima di portare a casa la celeberrima foto col sigaro.
McCurry invece, nella famosa (o famigerata, fate voi) foto di donne del Rajastan sorprese dalla tempesta di sabbia, adotta un approccio differente: se ci fate caso, nella prima foto in alto a sinistra i vasi sono distanziati fra loro e lontani dal gruppo di donne. Dalla seconda foto in poi, i vasi sono più vicini fra loro e al gruppo di donne, bilanciando la composizione. Da lì in poi, Mc Curry non si sposta più e scatta un’altra decina di foto, incudendo a volte un bambino, a volte un passante sullo sfondo, per poi scegliere dal mazzo quella con meno elementi di disturbo. Tutto lecito per carità, ma in questo caso la mano del fotografo-giornalista inizia a intervenire attivamente sullo scenario, al servizio del suo ‘senso estetico’. Dove inizia la rappresentazione fotogiornalistica e dove finisce il ‘senso estetico’? Bella domanda.

Tornando alla foto incriminata, esistono fotografie vincitrici di concorsi di fotogiornalismo che sono state squalificate per molto meno. Alcuni (quelli che “anche Ansel Adams ritoccava le foto”, per intenderci) dicono che il dettaglio del passante non è ‘significativo’ ai fini della foto, ma anche qui mi permetto di dire la mia: spostando il passante la foto acquista un ritmo diverso, l’alternanza fra pali, chiazze di giallo, elementi architettonici e passanti crea delle rime visive, quasi subliminali ma leggibili, che rendono buona (non eccelsa, ma buona e quindi ‘pubblicabile’) una foto che altrimenti non lo sarebbe altrettanto, o che non lo sarebbe affatto senza un certo nome sulla didascalia.

Interpellato al proposito, McCurry afferma di essersi evoluto in qualcosa di più vicino a uno ‘storyteller’ che a un fotogiornalista tradizionalmente inteso, e di sentirsi quindi libero di modificare dettagli di una foto che non corrispondano a una sua ‘immagine mentale’ dei posti che visita. Certo, non fino a spostare elementi dell’immagine, per questo il tecnico è stato licenziato. Se fossi maligno potrei dire che McCurry ha licenziato il collaboratore responsabile dell’errore non per aver ritoccato la foto, ma per averlo fatto coi piedi, ma che sia la verità o meno credo sia poco importante: è un’evoluzione che da McCurry -visti i trascorsi- ci si poteva anche aspettare. Nell’era analogica spostava i vasi (pre-produzione), adesso sfrutta la tecnologia digitale (post-produzione).

Girando la questione in termini musicali, è un po’ come suonare dal vivo o registrare un disco in studio. Dall’esecuzione in presa diretta si passa a un mondo di possibilità di intervenire su un’esecuzione, magari anche errata, fino a renderla ‘ascoltabile’ o esattamente corrispondente ai desiderata dell’artista. I Beatles, per esempio, a un certo punto smisero di suonare dal vivo e preferirono l’agio e la tecnologia degli studi di Abbey Road.

NdA: Prima che mi sia dia dell’invidioso: se fossi un musicista non potrei non invidiare i Beatles. Dato che faccio più o meno lo stesso mestiere di McCurry sì, invidio Mc Curry e qualsiasi mia opinione nei suoi confronti è sicuramente generata dall’invidia. Profonda, profondissima invidia.

Però io adesso, davanti a quell’immagine di Cuba formalmente ineccepibile, non sento più la poesia. Non c’è più lo stupore davanti al momento, nessuna prontezza, nessun ‘momento decisivo’ da cogliere, quel momento non è mai esistito se non nella mente di… uno storyteller.
Dunque chi è lo storyteller? È qualcuno più vicino alla pittura che alla fotografia? Non lo so. Fa reportage? No. La differenza importa qualcosa a qualcuno? Non a molti, suppongo.

Chi a questo punto fosse ancora sveglio, potrebbe anche chiedersi il perché della foto che ho pubblicato. Non cambierà la storia, ma è il risultato di una mezzora buona, una quarantina di scatti e diversi spostamenti in cerca dell’inquadratura giusta, in cui ignari passanti sono stati bersagliati dal sottoscritto finché questa ragazza -voltatasi all’improvviso per un motivo a me sconosciuto- mi ha regalato lo scatto che volevo, unico rispetto a quelli collezionati nei minuti precedenti e in quelli che sarebbero seguiti. Vi risparmio gli altri 39 tentativi: sappiate solo che il disegno sul muro è stato cancellato e questa foto, ora, non potrei più farla. Resta un piccolo scorcio di irripetibilità che mi sono guadagnato con tempo e fatica attendendo il ‘momento decisivo’, ed è questo che mi rende contento.
Cosa ne sa ormai di questo tipo di soddisfazione, uno Steve McCurry qualunque? 😉

NdA 2: Potrebbe sembrare che negli ultimi mesi abbia trascurato il blog, ma vi assicuro che non è così: ho svariati articoli già pronti o quasi, ma che per vari motivi non mi sento/sentivo di pubblicare. Dopo profonde riflessioni, ho deciso di liquidare tutti questi motivi con un bel ‘chi se ne frega?’ e ripartire da qui, anche grazie a una discussione che ho avuto su questo argomento con due amici: perdonate dunque se con questo articolo -che all’epoca voleva essere di stringentissima attualità- sono ormai ben poco sul pezzo, ma questo post esce con svariati mesi di ritardo rispetto alla sua stesura originale.

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